Chi ci viene a parlare di parroci e flipper, di borgate e di torte, di vigili e di comparse… Tullio De Mauro su Rodari, don Milani e Pasolini

1. A breve distanza dalla sua scomparsa, a Rodari è stato concesso il tributo di una vasta mole di scritti sulla sua opera e sulla sua figura. Una vera esplosione bibliografica, che ha già i suoi esperti, i suoi rodarologi. Negli anni recenti della nostra storia solo poche figure possono vantare qualcosa di simile. Salvo errore, i nomi da fare sono soltanto due: don Lorenzo Milani e Pier Paolo Pasolini.
A proposito dell’esplosione pasolinografica, un osservatore acuto ed equilibrato delle vicende culturali italiane, Enzo Colino, parlò una volta in la Repubblica d’una sorta d’industria. La confezione in serie di scritti su Pasolini gli pareva così fitta e ripetitiva da spingerlo a parlare sarcasticamente di un Pasolinificio & C.
Anche nella bibliografia su Rodari, nel mareggiare di tavole più o meno rotonde su di lui, si può scorgere qualche aspetto di rodarificio. Tuttavia la vasta produzione di scritti, in questo come negli altri due casi, può e deve considerarsi anche da un altro e più sereno punto di vista.
Sia Rodari sia, prima di lui, Milani e Pasolini, sono stati personalità creative di natura particolare. Tutti e tre sono stati trasgressori e critici, non a chiacchiere, ma rebus, con e nelle cose, con e nel modo di vivere e lavorare. E tutti e tre, oltre le profonde differenze, hanno avuto ancora qualcosa di comune. La loro critica, il loro trasgredire non si è configurato additandoci mete ardue e remote, straordinarie esperienze, mondi possibili inaccessi o difficilmente accessibili a chi non sia o creda d’essere un superuomo o una superdonna. La loro trasgressione, la loro capacità di proposta creativa si è invece esercitata sul terreno della più ovvia quotidianità. Se un parroco debba o no far giocare a flipper; in che senso e modo si debba obbedire a un superiore o a una legge; in che modo si debba andare a scuola, mandarci i figli e fare scuola; come si vive nelle borgate intorno a Roma; come sono fatti e si possono usare e modificare i diversi linguaggi, le parole, le immagini, i suoni che ogni giorno ci circondano; come si possono inventare favole per i figli e nipotini; come guardare e utilizzare la televisione o i fumetti. Eccetera eccetera. Insomma, cose ovvie e risapute che tutti non dirò conosciamo, ma viviamo ogni giorno.
A questo terreno pestato dai piedi di noi tutti rinviano gli scritti, gli interventi, le invenzioni, le invettive e speranze delle tre persone di cui stiamo discorrendo. E su questo terreno essi suggeriscono che possiamo trovare e percorrere sentieri nuovi, migliori, più umani: fino a costruire un nuovo conformismo, una nuova, più alta e ragionata obbedienza, ordini nuovi, più tolleranti e meno ingiusti e violenti.
Questa ovvietà non è fatta per richiamare su di sé, là per là, la dovuta attenzione. Se uno viene in mezzo a noi e dice parole strane, oscure, incomprensibili, noi gli prestiamo attenzione, è inevitabile, magari fosse solo per stabilire bene che è uno sciocco. Ma chi ci viene a parlare di parroci e flipper, di borgate e di torte, di vigili e di comparse, rischia là per là di passare inosservato o d’essere osservato soltanto come fastidioso attentatore alle nostre abitudini e scelte d’ogni giorno. In un modo o nell’altro, rischia di essere non capito. Bisogna che persone del genere se ne vadano. Pare che solo allora, quasi all’improvviso, ci si sappia rendere conto della loro mancanza, dell’assenza del loro stimolo nel lavorare, capire, pensare, sentire meglio e cambiare in meglio le cose d’ogni giorno. Allora, come nella marcia alpina di Jahier, ci accorgiamo del “vodo”, e di quel che fu il loro posto. E gli intellettuali ci fanno su un articolo di terza o una tavola rotonda. Con ciò noi, noi tutti, vogliamo testimoniare, vogliamo far sapere, non importa se ripetitivamente, che sì finalmente anche noi abbiamo capito.

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