Gianni Rodari compie 103 anni!

Per festeggiarlo pubblico qui l’introduzione al mio Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (Laterza 2020)

La mia memoria non è amorevole, ma ostile e lavora non a riprodurre, ma a eliminare il passato. Il ‘raznocinec’ non sa che farsene della memoria, gli basta raccontare i libri che ha letto e la sua biografia è bell’e pronta. Là dove per le generazioni fortunate parla l’epos in esametri e in cronaca, là per me c’è il segno dello iato e tra me e il secolo c’è una frana, un fossato, pieno d’un tempo rumoreggiante.

Osip Mandel’stam

Non mi fido dei ricordi più che non mi fidi degli scorpioni.

Gianni Rodari

Gianni Rodari è stato il più grande scrittore di favole e filastrocche del Novecento italiano, ma non solo questo: ha scritto su quotidiani, diretto periodici, è stato attivo collaboratore di associazioni di genitori e insegnanti, ha lavorato in modo originale con le amministrazioni provinciali e comunali, autentico motore di sviluppo democratico del paese fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso.

Sempre attento ai tempi in cui ha vissuto, che ha scrutato con preoccupazione ma anche con fiducia: dagli anni della guerra fredda a quelli dell’irruzione dei cartoni animati giapponesi, che ha difeso, poco prima di morire, allo stesso modo in cui tanti anni prima, nel 1951, aveva difeso i fumetti: «Ogni tanto si sente parlare di proibire questo o quel fumetto: non sarebbe più utile proibire agli insegnanti di far odiare i libri, trasformandoli in strumenti di tortura anziché di scoperta?». Lo strumento che ha usato per forzare la superficie della realtà e sondarne le possibilità è stato quello dell’immaginazione, un’immaginazione che si fonda su un impiego rivoluzionario della parola che con tutti i suoi usi è il più grande strumento di liberazione che gli esseri umani abbiano mai inventato. Uno strumento democratico a patto di non tenerlo chiuso soltanto dentro i libri, per un pubblico speciale di lettori, o anche, semplicemente, per un pubblico di lettori: troppo spesso infatti, come ha scritto Mario Lodi, le sue storie sono finite «come canarini in gabbia in alcuni libri». Insieme ad altri ha immaginato una nuova figura di insegnante all’interno di una scuola rinnovata, ha lavorato alla costruzione di un diverso modello di genitore, più consapevole e vicino ai bambini e alle bambine dell’Italia negli anni della grande e complessa trasformazione; ha guardato alle novità senza gli occhiali del passato, accogliendole, criticandole, ma mai condannandole in quanto tali. Infine, ha voluto fortemente condividere con gli altri le sue scoperte sulla Fantastica, cardine tra la fantasia e la ragione, in un libro tutto d’oro e d’argento, la Grammatica della fantasia. Un gioco, sì, ma – come ha scritto lui stesso – «il gioco, pur restando un gioco, può coinvolgere il mondo».
Rodari ha inventato un nuovo modo di guardare il mondo, ascoltandolo, fino alla fine, con il suo «orecchio acerbo», e così facendo ha portato l’elemento fantastico nel cuore della crescita democratica dell’Italia repubblicana.

Rodari è stato un intellettuale. E se un intellettuale è una persona in grado di dare un senso a quello che sta sotto gli occhi di tutti, rompendo lo specchio della duplicazione, tenendo a mente il passato e il futuro, allora Gianni Rodari è stato un meraviglioso intellettuale.

Lezioni di Fantastica è, dunque, il tentativo di raccontare, da un punto di vista storico, la sua biografia ricca e complessa, a partire dai libri letti e quelli scritti, dagli interventi sulla stampa, dalle lettere ad amici, dagli appunti di viaggio alle note sulla scuola. Una ricerca che si interroga sul senso stesso della parola ‘intellettuale’, sul suo ruolo nell’Italia del dopoguerra e quindi nella nostra contemporaneità. Il tentativo di raccontare un Gianni Rodari tutto intero, e non a una unica dimensione, dicendone soltanto «tutto il bene possibile». Problematizzandolo, facendolo tornare ad essere uomo del suo tempo, datato a volte, eppure nell’insieme, ancora, attuale. Mai facile per mancanza di complessità ma facile per scelta, perché questo è il suo obiettivo politico: il mio committente, dirà ancora nel 1974, è il movimento operaio più che il mio editore.

Rodari diventa scrittore per l’infanzia per caso, violando alcune convenzioni base del suo tempo: prima fra tutte, che la letteratura rivolta ai bambini debba trasmettere modelli grondanti ‘commozione’, ‘sacrificio’ e una contenuta felicità. Non che manchi una morale nelle prime filastrocche, ma il terreno è diverso: non una lezione impartita dall’alto in basso ma la chiara consapevolezza che adulto e bambino hanno «una parte di mondo in comune, perciò possono parlare la stessa lingua e intendersi». Una complicità sul terreno della fantasia. La traduzione poetica di «concetti e principi che la pedagogia contemporanea ha cercato di affermare, ostacolata dalla scuola, dalla famiglia, dalla Chiesa, dai dirigenti delle politiche scolastiche e altri ancora». Senza alcuna pretesa di sistematicità, come ha scritto il suo più attento studioso, Pino Boero: «è la natura stessa degli interventi rodariani a rifiutare il rischio della sistematicità della riflessione pedagogica, il pericolo dell’enunciazione di principi generali; Rodari parte dalle ‘cose di ogni giorno’ e a queste resta legato, non rifiuta il confronto teorico, ma alla discussione interminabile sui principi, preferisce l’azzardo della prova, la concretezza dell’esperienza».

Ma prima di scrivere per i bambini Rodari sogna di fare lo scrittore per tutti. È in questo momento che incontra una magnifica e disconosciuta disciplina: la Fantastica. Nell’inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un vigile urbano, venni assunto per insegnare l’italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano – lo credettero per pochi mesi – di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e a leggere Dostoevskij. Fu un bel periodo, fin che durò. Imparai un po’ di tedesco e mi buttai sui libri di quella lingua con la passione, il disordine e la voluttà che fruttano a chi studia cento volte più che cento anni di scuola. Un giorno, nei Frammenti di Novalis (1772-1801), trovai quello che dice: «Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare». Era molto bello. Quasi tutti i Frammenti di Novalis lo sono, quasi tutti contengono illuminazioni straordinarie.

In Italia ci sono stati vent’anni di fascismo e sta per arriva- re una nuova guerra. Che la parola sia l’unico strumento per immaginare tempi nuovi è una convinzione profonda di tanti, il mondo è opaco, incerto, e, anche se l’immaginazione sembra una via di fuga privata, c’è chi decide di coltivarla. Rodari ha nel cuore i surrealisti francesi e nella mente la lezione di Eugenio Montale e come lui cerca nella realtà un anello che non tiene, non per evadere ma per scoprire altre possibilità. «Io ho fiducia nella capacità della fantasia di esprimere tutti i contenuti. Non credo che la fantasia sia un’evasione, come è stata più volte definita, ma uno strumento della mente, capa- ce di esprimere per intero la personalità o di entrare in gioco con altri strumenti della personalità e formare una personali- tà più ricca. Non è un’evasione, non è una fuga».

Gianni Rodari, nel 1938 fa il maestro, inizia a frequentare ambienti antifascisti che lo porteranno, a guerra finita, a scrivere sulla stampa comunista e fino alla fine della sua vita resterà legato al Pci, un dato centrale poiché nel confronto e nella presa di distanza da alcune posizioni del partito matura il Rodari più originale e attuale. Se infatti la dimensione utopica mutuata dal marxismo resterà un punto di riferimento, sempre, Rodari presto si accorge che non è fornendo un’uto- pia bell’e apparecchiata che si sovverte la realtà.

Se rileggo oggi le mie storie che ho scritto nel ’49 o nel ’50, posso dirmi soddisfatto, potrei addirittura sottoscriverle senza cambiarle, proprio perché non le ho costruite pensando che in quel periodo, per fare la rivoluzione, occorreva insegnare certe cose e non altre. Non ho mai proceduto in questo modo. E questo vuol dire che ho sempre rispettato la capacità dei bambini di farsi da soli i loro valori […]. Il problema non è mai stato tanto quello di trasmettergliene di bell’e fatti, ma quello di avere fiducia nella loro capacità di costruirseli e di usarli.

Insegna, Rodari, il metodo dell’utopia. «Il senso dell’utopia, un giorno, verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato, ecc. Nell’attesa di quel giorno tocca alle favole mantenerlo vivo, e servirsene, per scrutare l’universo fantastico».

È stato scritto che Rodari ha operato nel senso di liberare le cose e gli uomini «dalla schiavitù di essere utili», come i suoi amati surrealisti. Che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di un Raymond Quenau. Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di Barrie, di Carroll. È stato scritto, infine, che Rodari rappresenta, «nel secondo dopoguerra, la persona di maggior livello culturale in Italia: nessuno come lui è riuscito a incidere così radicalmente sul settore letterario di cui si è occupato. Per bambini e ragazzi Rodari ha una posizione decisamente rivoluzionaria, cosa che non è avvenuta fra gli scrittori per adulti, dove non mancano certamente figure di grande rilievo (esempio: Calvino, Gadda, Pavese)». Eppure la sua opera è pressoché assente dalle storie della cultura e della letteratura italiana.

Gianni Rodari è morto a Roma il 14 aprile 1980. Per uno strano caso del destino, il giorno prima di Jean-Paul Sartre, l’intellettuale novecentesco per antonomasia. Ho cercato invano sulla stampa non comunista di quei giorni un necrologio degno di questo nome per lo scrittore di Omegna. Ho trovato, invece, su «la Repubblica», due pagine dedicate a Sartre e una domanda, la cui risposta è affidata a Pier Aldo Rovatti: cosa gli dobbiamo?

Forse, nel 1980, il senso di un debito verso Sartre è tale da far venire meno il dubbio che la stessa domanda si possa porre, proprio nella pagina accanto, anche su Gianni Rodari: in pochi, davvero in pochi, si chiedono in quel momento ‘cosa gli dobbiamo’, come se il suo lascito fosse impalpabile, non quantificabile, destinato a scomparire visto che ogni bambino prima o poi diventa un adulto e di Rodari sembra non avere più bisogno. Ma oggi riusciremmo, con la stessa chiarezza, a decidere che Sartre e Rodari non stanno accanto nella storia degli intellettuali novecenteschi ai quali ‘dobbiamo qualcosa’? Che il metodo indicato da Rodari, l’uso dialettico dell’immaginazione non sia anzi un «passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo, alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo»?

Ci sono, certo, eccezioni importanti che immediatamente fanno i conti con quello che Rodari ha rappresentato nel panorama culturale italiano (perché non bastano, nella nostra storia culturale, i fantastilioni di lettori che l’hanno amato): penso a Tullio De Mauro, per esempio, che fin dal 1974 definisce Rodari un classico, nel senso usato da Italo Calvino, suscitando l’ilarità dello scrittore che se lo appunta sulla giacca con un cartello. Un classico, come Collodi, come De Amicis ma ancora lontano dall’essere percepito come tale; e viene in mente che quando muore l’autore del libro Cuore, nel 1908, dalla riviera ligure a Torino due ali ininterrotte di folla ne salutano il feretro che viaggia in treno. Sarebbe piaciuto a Rodari attraversare l’amatissima Italia in treno, ci avrebbe scritto di certo una filastrocca che immagino più o meno così: C’era un tale di Omegna e non di Vipiteno/ Che al suo funerale c’era andato proprio in treno…

Niente treni per ricordarlo, ma una piccola folla di grandi e piccini nel cuore di Roma, la città che lo ha adottato dagli anni Cinquanta. Poi ad occuparsi di lui, del suo lascito, amici, studiosi, con un singolare effetto prospettico; mano a mano che il tempo passa, infatti, lo sguardo diventa presbite, aumentano gli scritti specialistici, diminuiscono i momenti di sintesi e Rodari viene fatto a pezzetti, ridotto a funzione, proprio come in una delle carte di Propp di cui egli stesso parla nella Grammatica della fantasia: «il grande scrittore per l’infanzia».

Eppure Rodari si è sempre pensato uno scrittore per tutti e una delle cose in cui più si è riconosciuto è stata quella di finire, con le sue storie, fra Brecht e Lee Masters nella collana einaudiana degli ‘Struzzi’, con il numero 14. «Sono senza dubbio libri ‘per bambini’, ma non manca chi li considera li- bri tout court, capitati solo per qualche disguido nello scaffale della letteratura infantile».

All’intellettuale Rodari, che ha scritto che «l’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza (alla quale Gramsci prescrive giustamente il pessimismo metodico) a quello della volontà (la cui caratteristica principale, secondo lo stesso Gramsci, de- ve essere l’ottimismo)», dobbiamo continuare a guardare per scrutare il presente e l’infanzia e la scuola, per scrutare il nostro tempo. Serve farlo perché «i bambini vengono dal futuro, non sappiamo di preciso che cosa siano, essi sono ‘impastati’ di ignoto e di futuro: ogni volta si presentano come un fatto assolutamente nuovo e sconcertante»23, sono l’immagine stessa dell’imprevedibilità, per questo ci abituano all’uso dialettico della ragione, a non adagiarsi su vecchie certezze, sull’immagine di un’età dell’oro perduta, ci obbligano a esercitare la speranza. Come ha scritto Andrea Zanzotto, Rodari ha avuto il dono di permanere nell’infanzia, senza piagnucolare e senza autoimbrogliarsi; c’era in lui questa disposizione naturale, che è di rarissimi, a restare per davvero «all’altezza» dell’età bambina, e così facendo a vedere il presente come possibilità e non come annuncio di morte. «In Rodari la riduzione del proprio atto poetico quasi esclusivamente alla poesia per bambini e l’opzione che vi è sottintesa costituiscono un fatto di coscienza la cui validità si riflette su tutta la poesia di oggi, un gesto di chiarificazione, una scommessa compiuta secondo una nuova forma di umiltà e di allegria» . Del resto è ai bambini e non agli adulti che si rivolge per invitarli a fare le cose difficili: «dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi».

Nell’accingermi a raccontare la sua storia prendo in prestito le parole che Rodari stesso ha usato per presentare il suo ultimo romanzo, C’era due volte il barone Lamberto, perché anche nel mio racconto

vi sono allusioni a questioni del nostro mondo e del nostro tempo, alcune scoperte, alcune nascoste, sepolte in profondità sotto le parole. Chi avrà voglia di scavare un po’, le troverà senza sudare, perché a scavare sotto le parole si fa molto meno fatica che scavare gallerie sotto le montagne, o a zappare la terra. Chi non ha voglia di significati nascosti è libero di trascurarli e non perde nulla: secondo me la storia sta tutta quanta nelle parole visibili e nei loro nessi. E così, buon divertimento.

Lascia un commento