“Tu giri adesso con le tette al vento io ci giravo già venti anni fa”. Una lettrice, Natalia Aspesi e Michela Murgia

Il 24 agosto, a due settimane esatte dalla morte di Michela Murgia, arriva ultima, non certo per ordine di importanza, Natalia Aspesi a parlare di lei rispondendo a una lettera di una lettrice (qui).

che scrive: premesso che Murgia “mi piaceva” «quello che non mi piace è questa enfasi collettiva nel celebrare un personaggio e alcune posizioni che per me, vecchia femminista degli anni 70 (il decennio in cui era nata Michela) sono tutt’altro che nuove, anzi perfino ovvie». So bene che niente è conquistato e guadagnato per sempre, continua, e l’impegno va rinnovato. Ma evidentemente se oggi occorre ribadire cose già vecchie 40 anni fa, come la possibilità che esistano famiglie non tradizionali o i rapporti “nuovi” nelle coppie o la necessità di avere figure intellettuali militanti e assolute, qualcosa non ha funzionato. “Quest’epoca è così povera che per affermare ciò che non è nuovo (ma sempre giusto) è necessario urlare, essere sempre molto visibili, quando basterebbe riscoprire e studiare la storia?”.

Aspesi risponde che Michela Murgia le faceva venire il nervoso, “mi pareva che il suo sorriso, la sua foga, e soprattutto quel che diceva, fossero storie, come pensa lei, vecchie, che arrivavano con grande ritardo rispetto a quel che avevamo vissuto negli anni importanti della nostra ribellione, e da lì non riuscivamo più a muoverci, sempre a ripeterci quel che ci eravamo già detti negli anni belli, i 70, gli 80, e chi la pensava così era vivo, giovane, e tutto portato al futuro. Oggi è come se non fosse successo nulla, i giovani protetti e abbacinati dal web, e con i genitori in colpa”. 

Uno scambio fra due donne forse della stessa generazione, sensato, all’apparenza, se non fosse che poi qualcuna, tipo me, la storia la studia e ha pure buona memoria e si ricorda dell’articolo scritto da Aspesi in morte di Eugenio Scalfari (qui)

In quell’articolo Aspesi rievocava le origini del quotidiano La Repubblica restituendo in modo forse naif ma ferocemente realistico e encomiabile nella sua sincerità, il maschilismo che improntava le relazioni professionali ai bei tempi del femminismo trionfante.

Scriveva Aspesi: “nella nostra redazione milanese si viveva l’assenza di Scalfari come una comodità, ma ancor più come una diminuzione, da una parte ci sentivamo liberi anche di dar poco retta al caporedattore locale, dall’altra ci mancava il suo sguardo sia di approvazione che di rimprovero. Li bramavamo ambedue, soprattutto noi signore cui da Roma arrivavano mazzi di rose rosse per certi articoli laggiù approvati, che ci procuravano una specie di batticuore che però dovevamo rinnegare per parità che allora non si chiamava di genere”.

Niente di male eh ad avere il batticuore per il plauso di un direttore tanto amato. Ma, continua Aspesi: “Erano tempi quelli in cui, pur essendo donne tutte di un pezzo, avevamo ancora quel vizio riprovevole di natura patriarcale per cui dai superiori, dai capiufficio, dai dirigenti, dai segretari di partito, da un direttore di giornale, si pretendeva la promozione più richiesta, quella di attirare la di lui attenzione con i soliti trucchi della tradizione femminile. Figuriamoci Scalfari, il massimo dei direttori di giornale, che quando era deputato socialista e senza barba, non suscitava, mi dissero veri brividi, divenne bellissimo quando si fornì di barba e folta capigliatura grigia e poi bianca, con quella figura grande e belle giacche, e una voce, una voce… E lo sguardo? E il sorriso? E i discorsi? E la cultura? E i segretari di partito in ginocchio? E l’occhiolino delle amanti dei segretari di partito?”

Avevamo ancora quel vizio riprovevole di natura patriarcale. Ecco. E quando è che questo vizio sarebbe scomparso? Una domanda che Aspesi avrebbe potuto porsi. Non solo nelle redazioni, ma nella società tutta. Malgrado infatti leggi come quella sul divorzio o il nuovo diritto di famiglia o l’aborto, si stentava a vedere una sostanziale trasformazione delle condizioni di vita di tutte le donne, soprattutto di quelle delle classi popolari.

Scriveva ancora Aspesi “Proprio in quei primi anni di Repubblica erano arrivate le leggi sul divorzio, le famiglie saltavano allegramente, le donne si riprendevano la libertà, forse separarsi non era più una disgrazia ma una vera sciccheria”

Una vera sciccheria. Sto rileggendo in questi giorni il bellissimo volume Le italiane si confessano di Gabriella Parca, un libro pubblicato dall’editore nel 1959 oggi riproposto da Nottetempo, frutto della selezione di trecento lettere arrivate alla piccola posta dei due settimanali a cui collaborava nel secondo dopoguerra. Un libro doloroso, a tratti drammatico, nel riportare sulla carta stampata le voci di chi voce non ha mai avuto, le donne delle classi popolari. Un libro bellissimo nel raccontare la lunga durata che ha caratterizzato la brutale sottomissione del genere femminile e nella quale troviamo tratti, storie, episodi che potrebbero facilmente essere raccontati oggi.

“Quando siamo soli lui mi dice che devo fare quello che dice lui: io gli dico di no e lui mi dà degli schiaffi forti nel viso”.

Parca ne pubblica una nuova edizione nel 1977, gli anni nei quali a detta di Aspesi, separarsi era diventato una vera sciccheria, a meno che tu non fossi un uomo in vista come Montanelli e lo stesso Scalfari e allora no non potevi permettertelo di separarti. Del resto perché poi separarsi da uomini così? “Il nostro direttore invece è sempre stato di grande eleganza e lungimiranza e democrazia, in politica e nei sentimenti, e forse per questo le donne della sua vita sono state, sono, intelligenti, generose, prudenti: un uomo così va rispettato, non puoi fargli scenate, amareggiarlo, soprattutto perderlo”

“Scenate, amareggiarlo, perderlo”. Le voci raccolte da Parca sembrano ritornare addomesticate nella memoria di Aspesi. Addomesticate, compiaciute, inverando quanto Pasolini aveva scritto nella seconda edizione a Le italiane si confessano, quella del 1960, cioè il fatto che per certe donne la schiavitù fosse meravigliosa. Ci sono uomini che vanno rispettati qualsiasi cosa facciano.

Ma cosa è questa se non una tardiva, onestissima, difesa di un mondo patriarcale dove ogni diritto, ogni passo in avanti era e continua ad essere concesso da uomini così, illuminati, ai quali è impossibile fare scenate? E’ questo il mondo che rimpiangiamo, al quale dovremmo guardare, dal quale dovremmo imparare qualcosa? E poi non è possibile leggere che oggi sembra non sia successo nulla, perché proprio non è vero.

Questo ovviamente non toglie niente all’incredibile storia del movimento femminista, e non sposta di una virgola la gratitudine che provo, che proviamo, noi, nate in quel decennio verso quelle donne. Ma forse non verso tutte. Certo non verso quelle che dicono eravamo più ganze noi.

Ecco io la storia la studio e credo che pure Michela Murgia l’avesse studiata, e si fosse resa conto che i mazzi di rose, il batticuore, i complimenti dei playboy avessero francamente fatto il loro tempo, insieme a quel tipo di “femminismo” che li rimpiangeva.

Per questo la sua voce non può essere liquidata con un banalissimo: tutte cose che ho già fatto, pensato, detto. Nemmeno con un triste “ Murgia era la favola che sapeva raccontare l’ultima spiaggia: poi forse con lei si è spenta la nostra capacità di resistere.” Non si è spenta manco per niente. Perché pure se le hai fatte pensate dette, magari ne hai fatte pensate dette altre altre che non vogliamo più, non tolleriamo più. Se oggi poi c’è bisogno di farle di nuovo, pensarle di nuovo, dirle di nuovo, ci sono due possibilità: o stai con noi e le nostre figlie oppure continui a rimpiangere i tempi in cui essere femministe era chic, gli stessi tempi che Parca indicava come tempi nei quali le donne erano una “maggioranza oppressa”. Gli stessi tempi nei quali Parca diceva che ancora era tutto da fare, e ancora molto lo è.

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