8 agosto 1956.
Il cielo è limpido sul distretto minerario di Charleroi. Lì dove piove sempre e il grigio è ormai il colore che avvolge tutto, quell’azzurro suona come un augurio di qualcosa di nuovo, di qualcosa di buono. Ma alle otto una nube inizia ad oscurarlo. Non è pioggia. La nube arriva dal basso, dalle viscere della terra. Le donne prendono per mano i bambini. Si avvicinano ai cancelli. Nessuno le fa passare. Capiscono subito che qualcosa sta succedendo, è successo. Ma nessuno dice niente.
Dentro i cancelli, all’ingresso del pozzo si teme il peggio.
Antonio Iannetta è un ingabbiatore molisano, risale in superficie, dice: “è colpa mia”.
Ma la sua voce viene sommersa dalle grida dei soccorritori, delle mogli, e poi silenzio. Subito si capisce che non c’è più niente da fare. 262 minatori sono rimasti intrappolati, sono tutti morti.
Si consuma la tragedia, inizia l’indagine.
La testimonianza di Iannetta viene raccolta subito dalle locali autorità, ma non ha seguito. Dopo poco tempo Iannetta viene mandato in Canada, con una casa e un lavoro.
Ma chi è? Ne ricostruisce la storia Paolo Di Stefano, giornalista del “Corriere della Sera” in La catastrofa (Sellerio, 2011).
(l’articolo sulla morte di Iannetta è ripreso da micciacorta): “Antonio Iannetta arriva a Marcinelle da Bojano il 14 novembre 1952, a 28 anni, con la moglie Maddalena e due figli, Carmela e Donato.
Anche lui rientra nell’accordo fra il governo italiano e il governo belga, uomini per carbone. Lavoro da schiavi, lavoro a cottimo. Che Iannetta non parli né italiano né francese ma solo il suo dialetto molisano, non è un inutile dettaglio, perché dopo aver fatto il perforatore e il manovale, gli viene chiesto di occuparsi dell’ingabbiamento. Compito delicato: inserire nell’ascensore il vagonetto pieno di carbone e nel contempo spingere fuori, dall’altra parte, quello vuoto; quando l’operazione è compiuta, informare il tiratore di superficie, con tre colpi di campanella o per telefono, che l’ascensore può risalire. Da qualche mese Iannetta è ingabbiatore a 975 metri sotto terra quando la mattina dell’8 agosto 1956, alle 7, scende con altri 273 minatori per il solito turno di otto ore. Lavora alla «cache» con un anziano compagno belga, Gaston Vaussort.
Dopo mezz’ora, un carrello rimane incastrato, ma l’ascensore parte, non si sa bene perché, tranciando, due o tre metri più in alto, le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione. Il fuoco divampa in un attimo.
Vaussort corre da una parte, Iannetta fugge dall’ altra, raggiunge un ascensore e arriva in superficie urlando che la miniera è in fiamme: i soccorsi saranno lenti e inadeguati.
Le mogli e i figli hanno visto una nuvola densa che oscurava il cielo quel giorno insolitamente azzurro, sono corsi subito al cancello della miniera aspettando giorni e giorni, finché due settimane dopo un soccorritore italiano esce dal pozzo gridando: «Tutti cadaveri».
262 morti, 136 dei quali italiani. Tra le vittime c’è anche Vaussort, che aveva cercato riparo dalla parte sbagliata.
Iannetta è morto a Toronto l’11 febbraio del 2012, a 87 anni. (qui)
“Era l’unica persona che avrebbe potuto raccontare esattamente come andarono le cose, perché i processi non hanno chiarito nulla, ma era malato di Alzheimer da tre anni e la memoria chissà in quale miniera del suo cervello era sepolta. Il minatore timido e impaurito, come viene ricordato ancora oggi dai suoi compagni, sparì pochi mesi dopo l’ incidente, in novembre.
Aveva cambiato sette versioni nel suo racconto. Ma il processo era ancora in corso, quando ottenne il permesso dalle autorità belghe di andarsene in Canada, che era il suo sogno di ragazzo povero. Solo nel ’76, per il ventennale della tragedia, sarebbe riemerso, intervistato a Toronto dalla tv belga: parlava ancora la sua strana lingua incomprensibile, che forse gli serviva per mascherare la verità. Balbettava e piangeva.
Il 25 settembre 2000, Nino Di Pietrantonio, il figlio di una vittima di Marcinelle, ostinato più di altri, bussa alla porta di una casetta a schiera di Bellwoods Avenue a Toronto. Gli apre un vecchietto pelato con la camicia azzurra chiusa al collo fino all’ ultimo bottone. È Iannetta, circondato dai suoi nipotini. Nino si sente dire varie cose che lo sconvolgono: in quei giorni dell’estate 1956 un ingegnere aveva chiesto al minatore molisano di provocare un piccolo incidente, in modo da convincere l’amministrazione a chiudere quella maledetta miniera, ma il piccolo incidente divenne una «catastròfa».
Nino si sente dire che era stato un intervento diplomatico a permettergli di fuggire e che Iannetta ancora percepiva un’entrata mensile extra-pensione senza riuscire a capire perché. Nino si sente dire che gli ingegneri, il giorno dopo, avrebbero offerto a Iannetta una casa in regalo. In regalo perché? Qualcuno insinua che in realtà il viaggio senza ritorno in Canada sarebbe stato un compenso all’uomo che si era assunto tutte le responsabilità, non sue, dell’incidente.
Nino si sente dire che nelle bare non ci sono i resti dei cadaveri ma solo sassi, perché i cadaveri non erano recuperabili. Nino scrive ai vari presidenti della Repubblica, ai presidenti delle Camere, persino a papa Wojtyla. Vorrebbe capire. Ma adesso è davvero troppo tardi. Alle vittime dell’8 agosto si è aggiunta la morte per vecchiaia dei testimoni che per decenni hanno combattuto contro la silicosi”.
Leggete il libro di Di Stefano, andatelo a comprare oggi e leggetelo: “Di Stefano ha incontrato dei vecchi – i minatori – e delle vedove, ma anche dei figli, persone che avevano pochi anni o anche giorni di vita ma la cui vita è stata segnata da quell’avvenimento. La vivacità delle trascrizioni, la varietà degli accenti che par di sentire rimanda alla durezza del vivere di quei tempi, e ogni racconto ha la sua particolarità, la sua individualità. «A Marcinelle si viveva con gli amici e per gli amici. Me, da veneto, andavo d’accordo con tutti, anche con quei sacramenti di abruzzesi…», dice Vittorio. E la distanza che molti belgi stabilivano con gli italiani scomparve, dicono tutti, di fronte alla tragedia.
Ci sono storie bellissime, in questo libro, che vengono abilmente intrecciate con le testimonianze desunte dagli atti processuali. E c’è la chiara coscienza di un rapporto con la “madre patria”, e che madre e che padre, di un dare tanto senza avere in cambio niente. È anche questa la ragione per cui i più hanno preferito allora rimanere in Belgio, diventare belgi. «Con il nostro lavoro e con i soldi che mandavamo al paese abbiamo rimontato l’Italia e siamo stati pure maltrattati», dice Geremia. «Eravamo 50 mila in tutto il Belgio, eravamo 30-40 mila solo nella Vallonia. Prima però c’è da dire che il Belgio per mille operai ricevuti regalava all’Italia da 2.500 a 5.000 tonnellate di carbone. Non so se mi spiego, non so. Ora ne viene uno che ha bisogno dello psichiatra, come il senatore Bossi, a dire che noi del Sud siamo parassiti: non sanno che noi, dopo la guerra, abbiamo messo in piedi l’Italia!», dice Vincenzo.
Sono dei vecchi che ricordano e che sanno, che hanno capito sulla propria pelle come va il mondo, cioè come funzionava l’Italia della ricostruzione e come tuttora funziona l’Italia della politica in mano a classi dirigenti perfino peggiori di quelle di allora. Siano o no “buoni” gli operai di oggi, certamente sono, come quelli di ieri, degli sfruttati da pochi ricchi incuranti della “cosa pubblica”.
Dà conferma economica di tutto questo un importante saggio storico diAndreina De Clementi, Il prezzo della ricostruzione. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra (Laterza), ricco di notizie e dati, di prove. Anche per questo La catastròfa è un libro da leggere, perché ci ricorda la necessità della “lotta di classe”, le sue eterne ragioni” (Goffredo Fofi).
Ha scritto Corrado Stajano “I processi finirono malamente, fu condannato a una lieve pena per omicidio colposo soltanto l’ingegnere capo dei lavori di fondo e non fu ordinato dal tribunale alcun risarcimento giudiziario. Le vittime e i loro familiari furono trattati senza umanità, imbrigliati nelle più assurde pastoie burocratiche. Racconta Camilla, abruzzese, nata il giorno dei funerali di suo padre: «L’Italia ci ha abbandonato senza mai chiedere che cosa è successo a quelle povere donne e agli orfani come noi… Ci hanno promesso, ai figli quando diventeranno grandi, posti di lavoro di qua e di là e invece non ci hanno dato niente […] Chi è mai venuto almeno a vedere che fine hanno fatto tutti questi poveretti?». Di Stefano è andato a vedere, a Marcinelle, a Pescara, a Manoppello, altrove, ha chiesto, ascoltato, visto i documenti, si è calato nella mente delle vittime e dal suo libro è uscito un affresco doloroso della nostra Italia povera, di allora e anche di oggi.
Racconta Peppe, agrigentino, l’uomo dai due cuori, come diagnosticarono i medici: «Lo sapete che cosa ha detto il ministro del Belgio dopo il disastro? Ha detto: “Voi italiani siete buoni solo a venire a crepare chez nous, da noi”. […] Ora però io dico che ormai anche in Italia, al paese mio, sono addiventati tutti ministri del Belgio, un paese di ministri. Ci abbiamo dimenticati quanto siamo stati miserabili e oggi siamo tutti ministri che dicono: voi africani e zingari e albanesi siete buoni solamente a venire a crepare chez nous. Abbiamo ubliato la memoria di quanto siamo stati miserabili nel mondo». Spesso fa rabbrividire La catastròfa, tra furori e anche dolcezze, tra parole amare e piccole memorie conservate, la medaglietta del minatore, la lanterna, il caschetto, una fotografia sbiadita di tempi felici. Gli uomini-carbone.
Nel 1946 il governo italiano firmò un accordo con quello belga senza alcuna garanzia di sicurezza: manodopera in cambio di tonnellate di carbone secondo la produzione. Furono 867 i minatori italiani morti nelle miniere belghe dal 1946 al 1963. È ricco di storie umane, il libro. I padri tornano a casa dopo il lavoro neri come il carbone e i loro bambini non li riconoscono; il razzismo: «macaronìs», «ni chiens ni italiens»; «ci chiamavano con il numero non con il nostro nome, io ero il 709»; l’orrore che videro i soccorritori, i morti soffocati, gonfi e neri; la bara leggera leggera del minatore abruzzese: «Che fa Donato mio, sta a ballà dentro la cascia?»; gli orfani che vanno al cimitero e non sanno se vanno a pregare sulla tomba del loro padre o su un pezzo di carbone messo lì dentro.
E poi Nino che non si è mai rassegnato, che non crede nelle versioni ufficiali del disastro, che non accetta la morte di suo padre Emidio venuto in Belgio dall’Abruzzo. Aveva nove anni, nel 1956, quando morì. Nino voleva vedere Antonio Iannetta, parlargli, sapere. Risparmiò tutta la vita per andare in Canada. Nel 2000 incontrò l’uomo dei vagonetti. Non servì. «Non ha pace, Nino, e non ne avrà», scrive Paolo Di Stefano. Lui come tanti altri orfani”.
La catastrofe di Marcinelle segue di due anni quella di Ribolla, è un pozzo nero nella storia dell’Italia repubblicana, ci ricorda il prezzo pagato per la ricostruzione, perché ogni uomo emigrato in Belgio ha consentito a un elettrodomestico di funzionare il Italia, non metaforicamente ma materialmente: uomini per carbone.
Un elettrodomestico. Come la TV.
L’8 agosto del 1956, sessanta anni fa, oggi, la televisione esiste da appena due anni. E i contadini abruzzesi e molisani ascoltano increduli la notizia del disastro che avrebbe coinvolto i loro cari.
Non vogliono, non possono crederci: a quel piccolo cubo in bianco e nero non danno retta perché i loro uomini emigrati hanno colori, e forma e profondità. Partono allora per capire per vedere per credere.
Sarà l’ultima volta.
(apparso la prima volta su minima&moralia)