ANNIVERSARI. Cento anni fa, il 17 febbraio del 1922 a Piadena, nasceva il pedagogista e scrittore che cambiò il modo di stare scuola e di intendere l’educazione
«Io sono nato nell’anno che è andato al potere il fascismo. Ho fatto tutta la scuola del fascismo, ho vissuto il dramma dei vecchi socialisti, che erano dei vinti e non volevano accettare la sconfitta pur essendo impotenti di fronte al regime che si era ormai consolidato. Ma questo io non lo sapevo».
Così Mario Lodi, nato il 17 febbraio 1922, racconta in poche righe la sua nascita e l’infanzia trascorsa a Piadena, vicino Cremona, negli anni che vedono l’affermarsi del regime mussoliniano e la sconfitta del movimento a cui il padre aveva aderito rivestendo anche il ruolo di assessore subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Lodi ricorderà come negli anni Trenta passassero da casa sua vecchi compagni: ce n’era uno, per esempio, Angelo Toninelli, detto «èl Cium» che si presentava sempre con un paio di scarpe in mano perché, facendo il calzolaio, aveva pensato così di sfuggire ai sospetti delle forze dell’ordine, che continuavano a tenere sotto controllo i vecchi antifascisti. Ed è con i vecchi compagni del padre, che Lodi partecipa alla costruzione della Biblioteca popolare di Piadena dopo la seconda guerra mondiale, scegliendo anche lui di militare nelle fila del Partito socialista vicino a Gianni Bosio e al gruppo che gravita intorno alla rivista «Movimento operaio».
SPINTO DALLA FAMIGLIA Lodi si presenta al concorso magistrale, per avere un mestiere sicuro, ma non ha deciso che farà il maestro. Non vede alcun legame fra la sua militanza politica e l’insegnamento. La scuola anzi, gli sembra il regno della conservazione per antonomasia. In un suo ricordo racconta: «Era il 1948 e l’Italia era sfasciata. Si doveva ricostruire il tessuto non solo economico ma anche sociale ed etico. La scuola poteva essere una prima palestra per la formazione di cittadini e non di sudditi. Il mio primo giorno da maestro ho trovato la scuola basata sulla supremazia dell’adulto: l’adulto pretendeva il saluto dai suoi scolari che ringraziavano con rispetto e paura. Il maestro trasmetteva il suo sapere». La Costituzione è stata appena approvata e Lodi cerca un modo di stare in classe che sia congruo al suo sentire democratico. La classe che gli tocca è difficile, non si interessa alle sue lezioni. C’è chi scusa questa mancanza di attenzione verso le richieste (minime) del maestro come una conseguenza della guerra.
MA LODI non ne è convinto e osserva, perplesso, l’infelicità degli alunni, il silenzio, e la gioia, opposta, quando suona la campanella e si liberano da quello che, evidentemente, sentono come un giogo. Non è «la guerra», si dice Lodi. E se il problema non fosse il loro, ma di come è organizzata la scuola? Poi un incontro, quello con altre maestre e maestri che hanno dato vita la Cooperativa della tipografia a scuola (poi Movimento di cooperazione educativa) e la scelta di collaborare insieme per cambiare la scuola dall’interno, attraverso la didattica democratica. E quello di maestro diventa il mestiere che Lodi farà tutta la vita, anche dopo essere andato in pensione, nel 1978.
Oggi celebriamo i suoi cento anni, che per poco non ha raggiunto: il maestro Lodi è, infatti, morto nel 2014, lasciando dietro di sé libri che sono diventati classici della storia dell’educazione come C’è speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970) e classici della storia della letteratura come Cipì (1961).
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