Un’educazione.

Persone male informate
O più bugiarde del diavolo
Dicono che tu sei nato
Sotto a una foglia di cavolo!

Sergio Endrigo/ Gianni Rodari, Mi ha fatto la mia mamma, 1974

image002Prologo: «Vanessa ti ricordi Barbapapà?», mi chiede un amico «Certo», rispondo. «Ricordi Barbottina? Avevi mai notato che nella sua stanza i due poster erano la riproduzione del manifesto del maggio francese, quello de “la lotta continua” e di Angela Davis?». No non lo ricordavo non l’avevo mai notato allora. E allora il mio amico quella stanza me l’ha portata ed eccola qua accanto, icona subliminale di un decennio, di un’educazione.

Io e gli altri. Quando ero bambina mia madre mi regalò un’enciclopedia che si intitolava Io e gli altri, «Serve per fare le ricerche», mi disse. Io le ricerche non dovevo farle, però, perché la mia era una scuola sperimentale, stavamo lì fino alle quattro del pomeriggio, non avevamo compiti per casa e passavamo un’ora al giorno nei laboratori.

I laboratori erano quel posto dove si andava alle 11, e ogni mese dovevamo sceglierne uno: c’era musica, tipografia, attività manuali e biblioteca, che consisteva nel fatto che io andavo lì e leggevo il Corriere dei piccoli. A tipografia facevamo il giornalino della scuola, a attività manuali un sacco di cose ma io ricordo l’uncinetto perché un anno unimmo i quadratini fatti da tutti i bambini e le bambine della scuola e ne uscì una coperta bellissima e colorata che fu messa all’asta al mercatino di fine anno.

image005Poi nelle ore di lezione leggevamo Cipì e la maestra Tonini ci faceva osservare l’orto che avevamo fatto nel giardino, e d’inverno tutti noi pensavamo che quei passeri sulle zolle nere dovevano soffrire la fame e sbriciolavamo le nostre merende e poi una volte venne Mario Lodi, quando facevo già le medie, e io ero ancora così commossa delle sue storie che quando mi fecero leggere una lettera di benvenuto scoppiai a piangere.

Ma erano già passati anni da quel giorno nel quale Io e gli altri era arrivato a casa mia, io avevo pensato che non dovevo fare le ricerche, e lo avevo messo da una parte. Poi a un certo punto a mia cugina Silvia regalarono I quindici, e la volevo pure io, ma mia madre mi disse: hai già Io e gli altri. Leggi quella. image007E così iniziai, ma non era facile. Io e gli altri funzionava così: c’erano otto volumi e io avevo imparato a riconoscerli dalla costolina di colori diveri. E poi c’erano gli ultimi due volumi che si chiamavano il Dizionario 1 e 2.

Leggevo tutte le voci, bulimica come ero allora di parole scritte, e alcune le imparavo davvero a memoria. Ma davvero non erano semplici. Alla P. per esempio, prima diPinocchio, dopo Pineale (?), c’era la voce Pinelli: ferroviere anarchico morto “suicidato”. Era successo nel 1969, poi avevano ucciso anche il commissario che lo aveva interrogato, quello indicato dalla “voce popolare” come il responsabile della sua morte. Ma anche in questo caso venivano sollevate domande: perché era stato ucciso, cosa sapeva? qual era stato il ruolo di un quotidiano Lotta continua che aveva deciso di “smascherarlo?image003 Per “fare chiarezza” Io e gli altri rimandava a un’altra voce che ricordo bene: Strage di stato. Alla S. C’era, poco sopra, lo scheletro di un pesce, che da allora non ho mai smesso di associare al volto di Andreotti che stava nella pagina accanto e che avrei imparato a conoscere negli anni a venire. Strage di Stato veniva prima di Strategia della tensione. Un elenco allora incomprensibile di eventi che dovevano essere successi da qualche parte ma che io proprio non riuscivo a collocare e finivano per confondersi nel fluire del tempo di bambina, diviso fra scuola e “la terra”, quella campagna dove mia nonna Isolina mi portava in bicicletta e dove gli anni Settanta, evidentemente, non erano mai arrivati.

image013Poi, in giro per casa di mamma, iniziai a trovare una rivista che sembrava finalmente fatta per me: si chiamava Linus, e in copertina aveva sempre qualche personaggio dei Peanuts, a volte di Altan. Io così la leggevo, senza saltare una parola, e scoprivo, accanto a Lucy, Schroeder, Snoopy e Woodstock, un universo fatto di erotismo che, bambina, sovrapponevo per giustapposizione a quello di Schulz. Linus non era certo una rivista pensata per i bambini, ma certo, il corto circuito educativo che deve aver provocato in chi, come me, l’ha letta intorno ai 7 anni, è ancora tutto da studiare. Di Linus leggevo anche la posta, e quella firma, Odb, che solo dopo anni avrei capito stare per Oreste Del Buono, così come avrei capito che in quell’infanzia incasinata quella di Linus sarebbe stata, forse, una delle fonti educative più autorevoli e longeve, perché in quelle strisce avevo imparato, oltre alla filosofia dei Peanuts, quella di Cipputi e di Valentina. Di classe e di genere.

image011Certo, a pensarci bene, il genere era già arrivato, attraverso una canzone che faceva più o meno così: «L’utero è mio e me lo gestisco io e il capitano che si gestisca l’ano, patapapom pa pom» ecc ecc. Quello si chiamava: il femminismo, e se ne occupava mamma. Ci si vedeva fra donne in un posto che si chiamava “laexgil”, che per me era tutta una parola e si parlava tutte insieme o una per volta, io no non parlavo, ma loro tanto. Da quelle riunioni deve essere uscito fuori un libro che si chiamava Arturo e Clementina.  La storia di due tartarughe che si innamoravano e poi si sposavano. Clementina però era una tartaruga curiosa e sognatrice e avrebbe voluto viaggiare, vedere il mondo. Allora Arturo, che la amava tanto, la convinceva a rimanere a casa perché lui, il mondo glielo avrebbe portato lì, nel loro nido d’amore. Clementina però rimaneva schiacciata da tanto amore e così un giorno lasciava il guscio e tutto quello che ci stava sopra e se ne andava in giro per il mondo, sola e felice, con uno splendido pigiamino a righe.

Non sapevo, allora, che Io e gli altri, i laboratori, Cipì, la scuola a tempo pieno, Linus e Arturo e Clementina, facevano parte di una grande trasformazione che investiva alcuni luoghi e persone fortunate dell’Italia in quegli anni. Non sapevo che la scuola a tempo pieno che io frequentavo era una novità che in alcune regioni non sarebbe mai arrivata. Né sapevo che potessero esserci modi diversi di fare lezione. Lo intuivo quando andavo a trovare mia cugina che stava sul Monte Amiata, lei aveva una scuoletta multiclasse (e a casa aveva I quindici). Era bello anche lì, ma era diverso. Comunque per me la scuola era un posto meraviglioso, che, pur privandomi della tv, grandissimo amore dell’infanzia, si integrava in modo perfetto con quello che avevo intorno a casa ed era impossibile pensare che potessero esistere maestri e maestre diversi dai miei.

Poi insieme a Io e gli altri arrivò una piccola raccolta di volumi quadrati, bianchi, con titoli colorati e illustrazioni diverse. (stanno tutti qui)

Ce n’era uno però che mi colpiva più degli altri, si intitolava Quel brutale finalmente, parlava di una scuola, la scuola elementare di Albisola Capo che chissà dove diavolo era. In questa scuola si erano messi in testa di fare un film e con il maestro Emilio Sidoti, avevano scritto una sceneggiatura e l’avevano realizzato. Quel brutale finalmente era il resoconto di questa avventura. Questa la trama:

image015«Un giorno un maestro tradizionale, prima di portare i suoi alunni in classe, li mette in fila e dice: l’ordine è la prima cosa da imparare! Arrivati in classe i bambini pregano e dopo si siedono. Il maestro subito dà il tema da svolgere e scrive il titlo alla lavagna. Giacomo Carta dice di andare al gabinetto, ma il maestri gli dice no. Un alunno (Carmine Carrato) sta prendendo l’astuccio, ma gli cadono i colori ed allora il maestro gli dà una bacchettata sulla mano. Il maestro ritira i compiti e dice: Adesso problema. Giacomo Carta ridice di andare al gabinetto, ma la risposta è la solita. Il maestro dopo aver fatto svolgere il problema assegna un compito di analisi grammaticale. Il nostro Giacomo ritenta di andare al gabinetto. Ma la risposta non cambia. Poi fanno l’intervallo, ginnastica nei banchi. Il maestro ritira i compiti. Giacomo per la quarta volta ridice la solita frase, e incomincia a farsela addosso. Siccome incomincia a fare una puzza tremenda gli altri scolari se ne accorgono e cominciano a ridere. Il maestro scaccia Giacomo, che mentre va al gabinetto se la fa addosso e sporca il corridoio. Così si effonde una puzza tremenda che a poco a poco si espande nella classe, così gli alunni sono costretti a tapparsi con la mano il naso e ridono come matti. Il maestro li rimprovera e li punisce. I bambini escono inquadrati. Il maestro rimasto solo dice: Capiranno l’ordine!

Ma Giacomo Carta prese una carabina e sparò al maestro, così quel brutale morì finalmente».

Cosa fosse un maestro tradizionale mi sfuggiva completamente e certo quel colpo di pistola alla fine mi sembrava incredibilmente esagerato e non lo capivo. Il libro faceva parte di una collana pensata nei primissimi anni Settanta, uscita fra il 1972 e il 1973, prima dunque che in Italia si iniziasse a sparare davvero, prima insomma della cosiddetta lotta armata. La collana dunque era ideata per i bambini nati intorno al 1962 e non al 1972 come me. Per noi ci sarebbe stato altro, o meglio, anche altro: sarebbero arrivati testi più riformisti e meno rivoluzionari, saremmo stati sommersi dai cartoni animati giapponesi, saremmo arrivati all’adolescenza certi che un colpo di pistola rappresentasse un finale tragico e non, certo, un lieto fine. Eppure, accanto a Quel brutale, i volumi su Le paure dei bambini o, soparttutto, Come nascono i bambini, illustrato da Lele Luzzati, si conservavano per me come testi imprescindibili di un’educazione che sarebbe rispuntata in modo carsico dopo molti anni, passando sotto alla reazione, durissima, degli anni Ottanta, quando la parola stessa, femminismo, avrebbe evocato per me e le mie amiche scenari polverosi, passati, di cui non avremmo più avuto alcun bisogno.

All’inizio di tutto questo Natalia Ginzburg, nell’aprile del 1972, aveva scritto un articolo dal  titolo Senza fate e senza maghi, commento alla nuova collana della casa editrice Einaudi «Tantibambini». «Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze». Ma quei quattro libri, scriveva Ginzburg, se fossero stati presentati sbadatamente, dando l’idea che si sarebbe potuto trovare successivamente ogni specie di fiaba, sarebbero stati perfetti, ma così,  con quell’intento pedagogico, superbo, da bibbia per la nuova generazione, diventavano detestabili. «La morale dell’Uccellino Tic Tic è che bisogna dar da mangiare ai lupi perché così diventano buoni. Non è vero. Chi l’ha scritto ha pensato che è bene demistificare agli occhi dei bambini l’idea del lupo. Però i lupi esistono. Si possono sfamare quanto si vuole, restano lupi e usano mangiare gli uomini. Oltre ai lupi, esistono persone che assomigliano ai lupi e il mondo ne è pieno.image017 Non vedo quale vantaggio abbiano i bambini a pensare che i lupi diventano miti se gli si dà da mangiare. Non vedo nemmeno quale vantaggio abbiano i bambini a non aver più paura dei lupi. È un errore credere che la paura sia un male. La paura, è necessario soffrirla e imparare a sopportarla. Inoltre i lupi non mangiano le cipolle. Ora un lupo che mangia cipolle e scarpe vecchie, è lontano dal vero non meno che le streghe o le fate. Così vorrei sapere perché le streghe e le fate sono tenute al bando in questa collana, come superate e retrograde, e destinate ad antiche generazioni che si abbeveravano di fantasie e illusioni, e invece si lascia il passo a questo lupo che mangia le cipolle. Alla luce di questa irritazione, ho riguardato tutti e quattro i libri di questa collana e ho pensato che se ciascuno di questi libri in sé andava benissimo, la prospettiva di altri libri simili dava la sensazione di asfissiare. Tutto era prevedibile e predisposto. Una collana per l’infanzia dovrebbe essere avventurosa e libera come un bosco. Questa era invece come un’impalcatura di legno».

Un’impalcatura di legno. Ho letto e riletto, da adulta, queste parole di Natalia Ginzburg e mi sono domandata davvero se dietro Io e gli altri, Dalla parte delle bambine, la collana, e i volumi per leggere per fare, non ci fosse davvero questo intento. Quello di creare un nuovo modello educativo che sotto l’apparente anticonformismo ne stesse in realtà inventando uno nuovo, ancora più spaventoso. Mi sono risposta che in Cipì le cose brutte succedevano, e Arturo non era buono se schiacciava Clementina, e di lupi che mangiassero le cipolle io non ne avevo visti nell’infanzia a metà contadina e hippy che avevo passato. Eppure Natalia Ginzburg vedeva lontano, più lontano di chi, in modo didascalico indicava il cattivo dandogli persino un nome e un cognome (il maestro tradizionale) e suggerendo di ucciderlo. Illudendo e illudendosi che sarebbe stato sufficiente eliminarlo per togliere tutto il male dal mondo. I termini della discussione sulla letteratura per l’infanzia rimangono, incredibilmente?, spesso gli stessi ancora oggi se solo pochi mesi fa il ministro francese dell’Educazione Najat Vallaud Belkacem ha giudicato che nelle fiabe tradizionali vi fossero “troppi stereotipi di genere”; mentre, dall’altro lato della barricata, gruppi di genitori si sono scagliati contro classici della letteratura per l’infanzia (qui) in nome di una battaglia contro il gender (qui un numero monografico de «La ricerca» sul tema).

Mi sono domandata spesso e ancora mi domando quanto questa genealogia di letture e immagini che da Luzzati arrivava a Crepax, sia stata condivisa da una generazione o abbia riguardato solo pochi (fortunati) bambini e bambine. Da storica, oggi, inizio a ragionarci con quella che i francesi chiamerebbero egohistoire e che la mia amica Susanna traduce in: “mo’ vi racconto bene i fatti miei”. Ma che in realtà è un invito a ricordare, condividere, raccontare, storicizzare, appunto, un’educazione, quella di chi è stato piccolo o piccola negli anni Settanta. (questo articolo è uscito su minima&moralia il 21 gennaio 2016)

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