Il senso di Camilleri per la storia.

In queste piovose giornate di luglio un gioco e un invito: ripercorrere la storia della nostra Unità nazionale attraverso le pagine di alcuni romanzi di Andrea Camilleri. Un omaggio a uno scrittore grandissimo, i cui romanzi storici rappresentano uno dei più intelligenti e riusciti esempi di narrazione del verosimile (del resto Camilleri ha sempre tenuto a sottolineare il debito che lo lega a Alessandro Manzoni). Solo la prima citazione è tratta da I Malavoglia di Giovanni Verga, spiegare perché sarebbe pleonastico. Spero di farvi venire la voglia (in Toscana si dice così) di leggerli tutti. (Fonte immagine)

17 marzo 1861, Torino. Il Parlamento Italiano, per la prima volta riunito, proclama Vittorio Emanuele II re d’Italia. Per grazia di Dio e volontà della Nazione. Ma la nazione è ancora tutta da fare. L’Italia unita, nata dal Risorgimento continua per molti ad essere ancora un’espressione, non più soltanto geografica ma anche politica. L’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia. Mancano soltanto il Triveneto e lo Stato Pontificio. E poi manca Roma, dove Pio IX regna sullo Stato Pontificio forte dell’appoggio della Francia. Capitale d’Italia è Firenze. La Nazione che è diversa dallo Stato. La nazione comunità immaginata da un popolo che non sa sentirsi ancora uno se non quando è lo Stato a chiamare. E allora sono solo tasse e servizio militare obbligatorio:

«Nel dicembre 1863, Ntoni, il maggiore dei nipoti era stato chiamato per la leva di mare. Padron Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che sono quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli aveva risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di stanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona,e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere insieme un po’ di repubblica tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbe presi a calci nel sedere che soldati non ce ne sarebbero stati più» (Giovanni Verga, I Malavoglia, 1881)

17 giugno 1866: la Prussia apre le ostilità contro l’Impero Austro ungarico. A darle man forte l’Italia che il 20 giugno, per voce del nuovo presidente del consiglio Bettino Ricasoli, annuncia lo stato di guerra contro l’Austria. Il nuovo esercito Italiano con a capo il Re Vittorio Emanuele II e il generale La Marmora mette in campo oltre 240.000 uomini. È la Terza guerra d’Indipendenza. A combatterla per la prima volta un esercito nazionale. Un esercito di povera gente che sperimenta con la leva obbligatoria cosa significhi far parte di uno Stato Nazione.

Il professor Stocchi, testimone d’epoca, narra in un suo scritto che nei paesi dell’interno dell’isola, l’accompagnamento del coscritto alla caserma aveva lo stesso rituale di un trasporto funebre: in testa il chiamato alle armi, dietro i genitori (la madre, col velo nero a coprirsi il volto, si picchiava il petto ed emetteva urla e gemiti), dietro ancora i fratelli, le sorelle, i cugini, gli amici tutti rigorosamente in nero. Non si trattava di cose di vento, di fantasia: la leva obbligatoria sottraeva alla famiglia contadina le forze di lavoro migliori e veniva a “costituire, per il ceto rurale povero, una durissima imposta materiale, oltre che morale, in quanto per quattro o cinque anni di servizio militare, venivano perdute migliaia di prestazioni giornaliere di lavoro”. Gli effetti della leva obbligatoria furono immediati: la renitenza si diffuse a macchia d’olio (e i renitenti andavano a ingrossare le fila dei latitanti e dei briganti); con la complicità di alcuni ufficiali dello stato civile molti neonati furono iscritti nei registri come appartenenti al sesso femminile; alcuni giovani vennero dai genitori portati sull’orlo della tomba con digiuni ed erbe magiche per renderli disabili; diminuì sensibilmente la nuzialità e soprattutto toccò livelli minimi il grafico delle nascite. Ma si badi bene: l’apparente volgarità del verbo adoperato, futtiri, vuole con reale pudore nascondere sentimenti puri come lo sposarsi, il fare l’amore, l’avere figli, allevarli. (Il gioco della Mosca, Sellerio, 1995, pp.  60-61)

e ancora

Dei fatti che stavano succedendo in paese e di cui in qualche modo gli era giunta l’eco manco ne parlavano: “cu veni appressu aggruppa i fili”, e loro sempre sarebbero venuti appresso a fare il lavoro ingrato, speranza nessuna ne tenevano di cangiare posto, magari se qualche pazzo andava dicendo a mezza bocca che con i Fasci le cose sarebbero cambiate; “storia è e storia sarà”; salta il trunzo e va in culo all’ortolano diceva il proverbio, e loro ortolani erano. Per esempio, a Garibardo, che magari lui era venuto trent’anni prima a contare chiacchiere e tabacchiere di legno, glielo avevano cantato latino: Vulemo e Garibaldi cc’un pattu: senza leva! Ca s’iddu fa la leva canciamu la bannera. E com’era finita? Erano dovuti partire per la leva e la bandiera non si era più potuta cangiare. (Un filo di fumo, Sellerio, 1997, p. 70)

Dall’Italia unita in molti si aspettano una riforma agraria che metta fine all’iniquo sistema del latifondo in vigore nel regno delle due Sicilie. Ma la riforma non arriva. Scoppiano varie rivolte che settori filo borbonici della società non esitano a strumentalizzare. Si organizzano bande formate da popolani guidate da capi carismatici che vengono chiamati subito briganti.  Nel volgere del primo decennio unitario i disordini si propagano dall’Irpinia al Molise, dall’Abruzzo alla Basilicata fino alla Puglia e alla Calabria. 50.000 soldati del regio esercito vengono inviati nelle province meridionali al comando del generale Enrico Cialdini. Gli scontri che ne seguono sono violentissimi. Vengono bombardati villaggi, muoiono centinaia di civili rei di aver dato ospitalità ai briganti. Nel 1862, a solo un anno dall’Unità, il governo di Urbano Rattazzi dichiara lo stato d’assedio in Sicilia e nelle province del mezzogiorno continentale. È la prima di una lunga serie di leggi speciali volte a eliminare il problema del “brigantaggio”  nel sud.

Brigantaggio l’ho scritto tra virgolette per farmi arrasso dalle tesi della storiografia ufficiale, almeno come ancor oggi risulta dai libri di scuola, che mistificano, spacciano per banditismo quella che in realtà fu anche una gigantesca rivolta contadina. E valgano le cifre. Dal Quadro numerico approssimativo fornito dal Gran Comando militare di napoli (approssimativo per “mancanza di tempo” specifica lo stesso estensore del rapporto, generale Pompeo Bariola, personaggio che ritroveremo in seguito) e da altri documenti ufficiali risulta che la repressione contro il “brigantaggio”, nel periodo compreso tra il primo giugno 1861 e il 31 dicembre 1865, portò a questi tre risultati: fucilati o uccisi in combattimento: 5212; arrestati: 5.044; presentatisi (arresisi cioè): 3.587; per un totale di 13.843 persone.

(…) Un po’ troppi per trattarsi di puri e semplici banditi da strada. E del resto uno scrittore abbastanza lontano dai problemi del meridione  come Riccardo Bachhelli tutto questo l’ha intuito nel suo bel racconto Il Brigante di Tacca del Lupo. Comunque fra quei morti c’era sicuramente incluso (…) il generale spagnolo Josè Borjes. Borjes era nato in catalogna ed era figlio di un ufficiale fucilato nel 1833: aveva partecipato alla guerra partigiana carlista e da semplice sottufficla era diventato, nel 1840, comandante di brigata. Andato in esilio, aveva vissuto a Parigi come rilegatore di libri e qui era stato scovato e arruolato dal comitato borbonico presieduto dal principe di Scilla. Gli venne assegnato il compito di sbarcare in calabria e di assumere il comando di tutte le forze filo borboniche, briganti eno. A metà settembre del 1861 toccò terra a Bruzzno sul litorale jonico, con 17 compagni da lui personalmente convinti all’impresa. Era partito da Malta.

In pochissimo tempo si fece alleato un ex sottufficiale borbonico diventato brigante di primissimo rango, Carmine Crocco, e diede inizio a una impresa veramente leggendaria che mise spalle a muro l’esercito italiano. Era l’abbiamo detto un tecnico della guerriglia. Venne catturato nei pressi di Tagliacozzo ai prii del dicembre dello stesso anno, più per un personale scoramento che per effettiva sconfitta. La sua fucilazione fu eseguita poche ore dopo per ordine del maggiore dei bersaglieri Franchini, uno che aveva il plotone di esecuzione facile, e sollevò supposizioni, interrogativi e voci indignate magari nel nostro parlamento. Borjes portava sempre con sé un taccuino: veramente le macchie che facevano illeggibili qualche parola trasudavano tarvaglio e sangue, ma quello che più colpiva, a parte lenotazioni sulle battaglie e sugli scontri, era l’attento commento ai modi di coltura agricola dei territori che via via conquistava. Il suo braccio destro, il brigante Crocco, diarii non ne tenne ma in compenso ebbe modo, in galera e in attesa di processo, di scrivere le sue memorie.

Crocco a un certo punto racconta che un momento delicato della guerriglia fu durante la marcia di avvicinamento a Stigliano (che poi venne conquistata). In quella precisa situazione le truppe italiane avrebbero potuto stroncare le forze di Borjes, invece si limitarono a tallonarle a debita distanza. Non si trattò di un errore tattico, spiega Crocco, ma di un preciso accordo, una componenda, fatta tra lui e il generale Della Chiesa o Dalla Chiesa come appare in altri docuemnti, comandante dei reparti italiani (…). L’oggetto della componenda Carmine Crocco non lo rivela ma si può e si deve facilmente pensare che si trattasse di tradire lo spagnolo. Può darsi benissimo che il brigante menta, però è documentato che Della Chiesa venne privato del comando e deferito al consiglio di disciplina. Ma prima di essere destituito definitivamente, Della Chiesa si dedicò anima e corpo a una vera e propria strage di contadini. Nel dicembre 1861, lo stesso giorno in cui Borjes e i suoi morivano fucilati (sarebbe meglio dire ammazzati) il generale La Marmora scriveva a Petitti, ministro della guerra, che Della Chiesa “nulla fece e ora fucila tutti quei che trova, senza pur ancor sapere ricavare quei ragguagli che ci sarebbero rpeziosi”. È evidente che Della Chiesa fucilava a ragion veduta: proprio perché quei ragguagli non venissero fuori, perché della componenda fatta con Crocco non restasse traccia alcuna. (La bolla di componenda, Sellerio, 2004, pp. 19-21)

Il disarmo dei briganti avviene solamente nel 1870. Senza che nulla nei fatti sia cambiato. La repressione nel sangue di numerosi episodi di resistenza non appianerà del tutto la questione; lascerà anzi in non poche aree del nuovo Stato nazionale una sorta di malcelata simpatia per tutte quelle organizzazioni – anche decisamente illegali e con finalità criminali – che si promuoveranno agli occhi dei più emarginati come soggetti capaci di una protezione non solo migliore di quella dello Stato, ma contro le prevaricazioni vere e presunte dello Stato. Precostituendo anche il terreno di coltura di uno dei fenomeni più devastanti ed “esclusivi” della storia nazionale italiana contemporanea: il controllo di interi territori da parte di forze criminali (mafia, camorra ecc…) capaci di coniugare con specifici interessi criminali una diffusa e profonda ideologia antistatuale. Che esista una problema meridionale, una questione, se ne accorge anche il Parlamento che nel 1875 decide di inviare una Commissione a studiare per quale motivo ancora una volta si sia reso indispensabile istituire misure eccezionali di pubblica sicurezza nel governo della Sicilia (Giovanni De Luna, Fare gli Italiani).

Circa quindici anni fa, attorno al 75, stava dicendo il marchese Curtò, sbarcarono in Sicilia due commissioni d’Inchiesta, dico due, e magari nei nostri paraggi vennero, mettandosi a fare una tale quantità di domande che pareva d’essere tornati a scuola. (…) Quelli ogni volta che calano dalle nostri parti vengono sempre coll’aria di doversi insegnare qualcosa. Al principio queste commissioni parevano una cosa seria, e invece qual è stato il risultato? Tutti i signori commissari si sono lasciati fottere da questa storia della mafia e si sono messi a scrivere cose di fantasia. (…) Mettiamo che la Sicilia sia un albero, va bene? Un albero malato. Questi signori hanno cominciato a fare “quest’albero ha nel tronco macchie così e così, ha i rami mezzo purriti, ha le foglie metà di questo colore e metà giallose, e quindi se ne sono tornati a casa loro contenti e felici. Franchetti e Sonnino poi hanno scritto magari, che il governo non aveva fatto altro che mandare da noi in Sicilia i peggio impiegati e il peggio personale di polizia. All’annegato pietre addosso. Cioè se un albero è già malato e io ttti i giorni ci piscio sopra , l’albero muore più di prescia. Ma questo non significa che è stata la mia pisciata a far ammalare l’albero. Può darsi che leragioni sono più lontane, magari fra le radici sotto terra, e allora bisogna avere gana di scavare non sapendo cosa intanto trovi, un nido di vipere, una pietra ferrigna che t’azzanna lo scarpone. Non solo bisogna essere medici bravi per scoprire una malattia, bisogna magari saperla curare (Un filo di fumo, Sellerio, 1997, pp. 35-38)

I primi governi nazionali hanno la ricetta per curare le ferite di questo nuovo Stato. Intanto il diritto: unificare i codici. Poi provvedere a un moderno sistema scolastico. Quindi riformare l’amministrazione. Hanno fiducia nel’estensione di un modello burocratico di tipo piemontese, in grado di controllare in modo verticale l’andamento della cosa pubblica. Prefetti vengono inviati in tutta Italia a vigilare sugli affari nazionali. Ma spesso le Autorità non sono all’Altezza:

Se Vossignoria oso disturbare, piuttosto che indirizzarmi ad altra autorità a V.E. sottomessa, ciò è da rinvenire nella cagione che nella generalità rende i miei compatrioti riottosi ad illuminare i Funzionari responsabili circa fatti e circostanze che in quale che siasi altra parte del Regno troverebbero largo concorso di testimonianze e dichiarazioni. Non crede infatti ella che se l’Autorità ispirasse maggiore fiducia ne’ cittadini, molti che oggi non la soccorrono per timore della provata potenza de tristi, e per convinzione della debolezza e financo connivenza di certe Autorità, altrimenti obbedirebbero alla legge a fronte di Funzionari più abili, e più forti o quantomeno più circospetti? Non è stata sovente notata ne’ Funzionari, o in taluni di essi, negligenza abituale, aborrimento dal lavoro, eccessiva pigrizia e mollezza nel compiere il servizio, mancanza di assiduità e di zelo? E quante volte è avvenuto che siano state commentate dal pubblico abituali relazioni di Funzionari con individui pregiudicati nella comune opinione? Ma io non sono qui tratto per interporre processo ai modi co’ quali la cosa pubblica viene condotta – per quanto da Italiano sincero abbia di ciò non solo diritto ma dovere a lagnarmi –(…) (Un filo di fumo, Sellerio, 1997, p.56)

Alcune storie sono degne di nota. Come una di quelle raccontate negli Atti dell’Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875. Una storia dell’Italia unita. La storia di un Prefetto fiorentino che si intestardisce a imporre agli abitanti di Caltanissetta un’opera ai più ignota Il Birraio di Preston:

Dopo il Prefetto Polidori, un buon Prefetto che aveva fatto marciare la macchina amministrativa venne Fortuzzi. Si figuri la Commissione, Fortuzzi voleva studiare la Sicilia attraverso le figurine incise nei libri. Se un libro, unastoria di Sicilia, non aveva figure, non aveva importanza. Fortuzzi arrivò persino a fare il buttafuori del teatro, ad eccitare gli artisti a cantare, ad onta che un pubblico scelto disapprovava l’opera il Birraio di Preston. Voleva imporre anche la musica a noi barbari di questa città. E con il nostro denaro. Eppure il Birraio di Preston ebbe delle vittime: un povero diavolo impiegato postale che disapprovava il Birraio fu traslocato e dovette abbandonare il posto perché non aveva che 700 lire all’anno di stipendio e non poteva allontanarsi da Caltanissetta (Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, ed. 1968, pp. 730-731) 

Esiste fra il nord e il sud del paese una incomprensione profonda e una profonda diffidenza. I quotidiani hanno una tiratura essenzialmente locale. Quando nel 1876 il conservatore Torelli fonda a Milano Il Corriere della Sera lo fa per dare voce non tanto all’Italia unita quanto alla nuova classe dirigente del triangolo industriale. A Roma nel 1878 viene fondato il Messaggero. A Napoli pochi anni dopo, nel 1892 Edoardo Scarfoglio fonda il Mattino Voci diverse. Distanti. Sono le voci della nuova opinione pubblica che si forma nell’Italia unita. Ma quanti possono leggere? Al momento dell’unificazione il 70% degli italiani è analfabeta. Il sistema scolastico in gran parte è affidato alla Chiesa. Fino al 1877 quando con la legge Coppino l’istruzione primaria diventa gratuita e obbligatoria.

E assieme agli uomini di mare, agli spalloni, a non contare c’erano i carrettieri, o meglio i conduttori di carretti, perché cavallo e carretto non gli appartenevano, rimbecilliti dal percorso sempre uguale dal deposito di sulfaro alla plaja e dalla plaja al deposito, e più corse facevi, più guadagnavi ma attento a non strappiare il cavallo, a non rompere una ruota, allora ti giocavi due o tre settimane di una paga già ridotta all’osso dalla percentuale dovuta al padrone di cavallo e carretto; a non contare c’erano i pirriatori delle cave e i minatori di sulfaro e di sale, che gli occhi gli lacrimavano quando tornavano a vedere il sole e la notte la tosse li martoriava, i polmoni fatti più polvere e pietra che carne; a non contare c’erano i pescatori delle paranze che dopo una giornata di mare tinto nella quale s’erano giocati la vita, si portavano a casa mezzo chilo di trigliola che doveva levare la fame a dieci persone (pesce di scarto che quella gente grama non pesca per sé ). Ma dato che si era fatta l’ora di mangiare pure loro che non contavano stavano mangiando. Lo facevano però con fantasia, perché c’era da prendersi per il culo, convincersi cioè che la scanata di pane di frumento da un chilo fosse appena bastevole per il companatico che non andava più in là di una sarda salata, di un uovo ciruso, di un pugno di olive.

Allora si faceva penzoliare dalla cima di una canna la sarda salata e si dava un mozzicone al pane e una leccata alla sarda, una sola passata di lingua pelle pelle: i denti sulla sarda si cominciavano ad adoperare verso la fine, quando il rapporto fra il pane e il companatico era diventato cosa ragionevole. Oppure si metteva in bocca tutto intero l’uovo ciruso, che per questo scopo doveva essere ben sodo, lo si teneva un poco fra la lingua e il palato e poi sempre tutto intero lo si ritirava fuori e su questo sapore uno poteva mangiarsi magari mezza scanata, e capace che in caso di bisogno l’uovo era ancora buono per il giorno dopo. I più fortunati, quelli ai quali il lavoro dava diritto per tradizione alla calatina, al companatico a spese del padrone, mangiavano caponatina, un’insalata di capperi, sugo, sedani e melanzane annegati nell’aceto, e si sentivano meglio di un re. Perché era martedì, e di martedì non c’era cotto nelle famiglie: il fonello di casa veniva solamente acceso il giovedì e la domenica, quando si calava la pasta.(Un filo di fumo, Sellerio, 1997, pp. 68-69)

Ma i poveri, gli analfabeti sono pericolosi:

Mi vien fatto inoltre di considerare la situazione politica dell’Isola (e particolarmente di quest’orrida provincia) del tutto simile a un cielo coperto da nubi spesse e minacciose, foriere di imminenti tempeste. Come Voi ben sapete, turbolenti e dissennati agitatori bakuniani, maloniani, radicali, anarchici, socialisti, percorrono indisturbati il paese spandendo ovunque a piene mani il tristo seme della rivolta e dell’odio. Che fa il solerte e vigile contadino? Quand’egli vede nel canestro colmo d’appetitosa frutta una mela marcia, non esita immantinenti a gettarla via, perché non infetti di sé e il contagio non si propaghi. Di contra, qualcuno in alto loco pensa che non si debbano mettere in atto provvedimenti che altri ritener potrebbero repressivi; ma intanto, mentre si parla e discute, il mal seme alligna, mette salde ma purtroppo invisibili radici. E difatto essi sono abilissimi nel celare frequentemente i loro turpi proponimenti sotto apparenze di civile convivere.(La concessione del telefono, Sellerio, 1998, p. 29)

La repressione è durissima. Nel complesso, il numero delle vittime raggiunto nel giro di dieci anni supera quota 5.000. Tra la fine dell’anno 1893 e l’inizio del 1894 in Sicilia scoppiano tumulti e dimostrazioni di protesta. Il centro propulsore della rivolta sono le province di Enna e Catania, dove, nel maggio del 1891 il deputato socialista Giuseppe De Felice Giuffrida aveva fondato i Fasci dei Lavoratori siciliani. Le rivolte del popolo siciliano si scatenano all’inizio di dicembre del 1893. Il 24 dicembre, il governo presieduto da Crispi proclama lo stato d’assedio nell’intera isola di Sicilia. Vengono inviati più di 30.000 soldati per ripristinare l’ordine pubblico. Il generale Morra di Lavriano viene nominato Commissario con pieni poteri.

L’episodio più grave di sollevazione popolare avviene a Valguarnera (in provincia di Enna) il giorno di Natale del 1893: i lavoratori del luogo marciano verso il centro della città, incendiano i locali del comune, assaltano le case dei notabili, bruciano le carceri e gli uffici postali, procedono a saccheggi e distruzioni. Nel giro di pochi giorni la rivolta si estende ad altri centri della Sicilia e molti lavoratori perdono la vita negli scontri con l’esercito e la polizia: il 25 dicembre a Lercara ci sono 11 morti; il primo gennaio del 1894 a Pietraperzia si contano 8 deceduti fra la gente del popolo; tra il 2 e il 3 gennaio muoiono più di 40 persone nel corso delle manifestazioni avvenute a Belmonte, Mazzarino, Camporeale, Gibellina Marineo; il 5 gennaio 14 persone muoiononel corso di una protesta organizzata a Santa Caterina Villarmosa. Nei mesi di aprile e maggio del 1894, il tribunale militare condanna i membri del Comitato Centrale dei Fasci siciliani: 18 anni di reclusione vengono inferti a De Felice Giuffrida, il fondatore dei Fasci di Catania.

Io ho visto l’esercito italiano, in più occasioni,e sempre più frequentemente, sparare su gente che protestava perché stava a muriri di fame. Hanno sparato macari su fimmine e picciliddri. E io ne ho provato raggia e vrigogna. Raggia perché non si può restarsene freschi e tranquilli a vedere ammazzare persone ‘nnucenti. Vrigogna perché io stesso, con le mie parole, i miei atti, con gli anni di galera, con l’esilio, ho dato mano a fare quest’Italia che è ad diventata così com’è, una parte che soffoca l’altra e se si ribella, la spara. (Andrea Camilleri)

l’articolo è uscito su minima&moralia

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