Educazione femminista?

da La parola femminista. Una storia personale e politica (Mondadori, 2024)


A nessuna di noi, molto probabilmente, è stata insegnata
la necessità di curare specialmente i rapporti
con altre donne e di considerarli una risorsa
insostituibile di forza personale, di originalità
mentale, di sicurezza sociale.
Non credere di avere dei diritti


C’è una fotografia di una manifestazione nel centro di Grosseto, ci sono io, con altre e altri studenti e poi ci sono loro: la professoressa Turi, la Betti, la Percario, la Rocchi. Si chiamano per cognome anche se un nome ce l’hanno, ma per tutti i cinque anni delle scuole superiori è il cognome che conta.
Anche io per (quasi tutte) loro sono la Roghi, anche se ogni tanto mi chiamano Vanessa ed è per sottolineare qualcosa che intuisco ma non capisco. Un legame diverso, un modo per dire: guardami. Un nome ce l’ho anche io e dietro il mio nome c’è la mia storia, la mia vita, il mio vissuto. Un vissuto che ignoro nella maggior parte dei casi perché le professoresse iniziano e finiscono dentro la scuola per noi studenti.
L’ha scritto Gaja Cenciarelli nel suo romanzo Domani interrogo: «1) Per gli studenti, tu non sei un essere umano.
2) Non importa quel che fai o quanto ti spendi per loro: gli studenti ti vivranno sempre come un nemico. 3) Nessuna buona azione, generosità o empatia impedirà agli studenti di parlare male di te ecc. ecc.».2 Tutto scritto nei miei diari, anche delle professoresse che ho amato di più.

Ogni giorno mi lamento di loro, delle interrogazioni, dei voti. Poi però in qualche pagina del diario una poesia, il riferimento a un libro, a una cosa studiata che mi illumina, mi apre a nuove idee che mai avrei nemmeno immaginato prima di incontrarle.
E sono le tragedie greche e la lettura di alcuni personaggi del mito che dà Christa Wolf, e Rossana Rossanda scoperta sulle pagine de «il manifesto», e i proverbi dei Malavoglia e i racconti di Verga, ed è il cielo che vede Ciaula, la notte, uscendo dalla miniera. L’esclusa di Pirandello, e I limoni di Montale, e su su, fino a scoprire di voler studiare storia, dopo aver letto Carlo Ginzburg intorno ai sedici anni. Mi convinco che non esistano limiti di genere nella mia esperienza scolastica e quindi che non esisteranno mai nella mia vita. Mi convinco, proprio grazie a questa scuola che mi fa sentire uguale, che la parola femminista per me, per la mia generazione, è ormai del tutto inutile. Sono «un frutto ambiguo della scuola del merito», come ha scritto di sé Lidia De Federicis, autrice insieme a Remo Ceserani de Il materiale e l’immaginario, che è il manuale di letteratura dei miei
anni di liceo: anche io, sempre citando De Federicis, entro da abusiva al liceo classico, predisposto per educare all’esercizio delle professioni liberali e borghesi, mi vedo come una eccezione e non capisco quanto sia tipico quello che mi accade.
Cresciuta con una formazione umanistica e nient’affatto sociologica, per anni ho seguito un percorso irriflesso che pareva snodarsi a caso e aprirsi per effetto della mia energia. Ora, al contrario, sono tentata d’indicarne la tipicità e le strettoie, proprio là dove credevo che agissero solo una vocazione intellettuale e scelte autonome. […] Qui, nelle occasioni prese o lasciate, la subalternità poteva o no svilupparsi in potenzialità. Per concludere: niente mi era davvero destinato.


Che niente mi sia davvero destinato l’ho capito dopo, all’università, quando le differenze di classe mi hanno detto chiaramente che non era vero che eravamo tutte uguali.

(pp. 104-105)

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