Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza. Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978
Con questa citazione John Foot apre l’ultimo capitolo del suo importante lavoro di ricerca La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia. 1961-1978 (Feltrinelli 2014), capitolo dedicato alla legge 180, alla sua approvazione e alla successiva costruzione della sua memoria pubblica.
Una citazione che racchiude in sé quanto di problematico ma anche di immensamente rivoluzionario ha potuto lasciare l’esperienza di un uomo nella storia nella società italiana senza dimenticare tuttavia le critiche, le domande, le questioni ancora oggi in sospeso, a trentasette anni dal 1978.
Una citazione che a partire dalla persona che l’ha pronunciata, Franca Ongaro, mette in luce tuttavia un altro tema, centrale nel libro di Foot: Basaglia, da solo, non sarebbe riuscito a fare niente; e quella che racconta La “Repubblica dei matti” è la storia culturale di un movimento, non la storia di un singolo uomo.
Per questo la ricerca di Foot è complessa da raccontare, perché mai retorica, mai ammiccante, mai facilmente lineare.
Dunque procediamo attraverso concetti chiave.
Uno: Franco Basaglia, da solo, non avrebbe mai fatto niente.
Due: Franco Basaglia non amava i matti, odiava il manicomio.
Tre: la legge Basaglia non esiste e comunque dovrebbe chiamarsi legge Orsini.
Quattro: quindi Franco Basaglia è stato il più importante intellettuale della storia dell’Italia repubblicana.
Uno: Franco Basaglia, da solo, non avrebbe mai fatto niente
Gorizia 1961, Franco Basaglia e Franca Ongaro, sua moglie, si trasferiscono con i figli piccoli nella provincia friulana, perché Basaglia, il “filosofo”, come lo chiamano con un certo disprezzo all’università di Padova, è stato esiliato lì, mandato a dirigere il locale manicomio.
Scrive John Foot:
Dentro, dietro alla classica scenografia manicomiale delle mura, dei cancelli, delle reti, delle sbarre, delle pesanti porte serrate, Basaglia trovò più di 600 pazienti. Circa 150 stavano nell’ospedale a seguito degli accordi di pace del dopoguerra. Basaglia li considerava malati inamovibili, non dimissibili, per i quali è necessaria una soluzione interna, essendo privi della minima prospettiva oltre lo spazio ospedaliero. (…) La categoria dei ‘matti’ (che spesso si confondeva con quella degli ‘internati in manicomio’) era allora molto vasta, comprendendo – per esempio – le persone affette da sindrome di Down, gli alcolisti e gli epilettici. (…) Gorizia era, come tutti i manicomi italiani, un autentico lager.
La guerra fredda sullo sfondo e le tensioni decennali sulla linea del confine, lì dove gli esseri umani diventano in fretta – a secondo del nemico da combattere – matti.
Il manicomio così accoglie cittadini di nazionalità slovena (due terzi e di questi circa la metà non parla italiano), internati negli anni della fascistizzazione, ma anche fascisti finiti dentro dopo la guerra, ex partigiani comunisti, incappati nel ritorno all’ordine seguito al 1948.
C’è pure Carla reduce dal campo di concentramento di Auschwitz. Sembrerebbe una caricatura espressionista se non sapessimo che in realtà il manicomio, nel dopoguerra, è questo.
Intorno a Basaglia si raccoglie una squadra composta da psichiatri, intellettuali, infermieri. Eccola (gli anni sono quelli dell’arrivo e della partenza da Gorizia): Franco Basaglia: 1961-1969; Franca Ongaro: 1961-1969; Antonio Slavich: 1962-1969; Lucio Schittar: 1965-1969; Agostino Pirella: 1965-1971; Domenico Casagrande: 1965-1972; Leopoldo Tesi: 1962-1968, 1969; Giorgio Antonucci: 1969-1970; Maria Pia Bombonato: 1962-1966; Giovanni Jervis: 1966-1969; Letizia Comba Jervis: 1966-1969.
Grazie a questo gruppo di persone i reparti vengono aperti, vengono restituiti ai malati gli oggetti personali, viene dato loro il diritto di parola nelle
assemblee generali. Grazie a questo gruppo di persone la proposta di Gorizia raggiunge angoli remoti del paese, mettendo in relazione mondi fino a quel momento estranei: quello della psichiatria e quello degli amministratori locali. È invece proprio questa la necessaria cerniera di trasmissione verso il mondo esterno, poiché il rischio è di non farsi capire dalle città che gli ospedali li ospitano, come succederà, nei fatti, a Gorizia ignara, estranea, ostile fino alla fine a Basaglia e alla sua équipe (qui un’intervista a Domenico Casagrande).
Gli ospedali psichiatrici, i manicomi insomma, sono infatti di pertinenza delle province che per tutti gli anni cinquanta hanno faticato a trovare un ruolo politico autonomo: il centralismo del ventennio fascista è riproposto, nei fatti, dalla mancata attuazione della costituzione.
Ma con il 1961 e l’avvio dei primi governi di centrosinistra tutto comincia a cambiare. Quello che gli storici della psichiatria chiamano movimento per la deistituzionalizzazione (degli ospedali) in realtà è un repentino processo di istituzionalizzazione da parte degli enti locali che finalmente si fanno carico del problema.
Perugia 1964. Ilvano Rasimelli è eletto presidente dell’amministrazione provinciale. Tra i suoi primi atti c’è una visita al manicomio, due giorni dopo l’insediamento, accompagnato dal direttore dell’ospedale, Giulio Agostini.
Insoddisfatto dell’immagine ‘cosmetica’ della realtà che gli era stata proposta, Rasimelli ritornò il giorno dopo – alle 6 del mattino –, da solo, e suonò il campanello. Al capoinfermiere che non voleva lasciarlo entrare si limitò a dire di ‘informare Agostini’ della sua presenza. Come Tommasini a Parma, Rasimelli si trovò di fronte una visione infernale. In una stanzetta c’erano circa sessanta donne ‘urlanti e rotolandosi per terra talvolta tra le loro feci’. Decise di agire. A Perugia quello fu il primo ‘no’: molti altri l’avrebbero seguito a ruota.
Colorno, Parma, 1965. Mario Tommasini viene eletto presidente dell’amministrazione provinciale.
La prima volta che ho messo piede nel manicomio di Colorno, due giorni dopo la nomina, sono uscito e ho vomitato […]. Avevo visto un carnaio, malati nudi, donne con le vestaglie senza nemmeno la cintola, uomini seduti per terra, con la testa tra le mani, altri che camminavano strascicando, come se i piedi non volessero andare in nessuna direzione, vetri rotti, sporco dappertutto”. ‘Eravamo’, scriverà poi, ‘in un luogo dove la morte e la violenza erano all’ordine del giorno’.
Sono soltanto due esempi ma fra i più significativi di quello che vuole dimostrare John Foot con la sua ricerca: la rivoluzione basagliana è in realtà il frutto del convergere di azioni diverse, portate avanti con coraggio da uomini della generazione che ha visto la guerra e il fascismo, e che mette in pratica, a partire dagli anni sessanta, un’altra visione della società, della repubblica, dando corpo e sostanza al mandato costituzionale, entro una più ampia cornice, quella del
disgelo costituzionale, come messo in luce dagli studi di Alessandro Pizzorusso (poi ripresi, fra gli altri, da Stefano Rodotà nel suo Libertà e diritti in Italia). Non un movimento riformista, un movimento rivoluzionario.
Una storia che affonda le sue radici negli anni quaranta, germoglia negli anni sessanta, e prepara di fatto il sessantotto italiano che trova nel movimento per la chiusura dei manicomi un simbolo di cui si approprierà trasformandolo, nell’immaginario collettivo, in una “sua” battaglia, una battaglia degli anni settanta.
Questo perché dopo l’azione (“Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia”, disse Jean-Paul Sartre), quando i muri sono stati buttati giù, la contenzione abolita, i matti slegati e il manicomio, nei fatti, superato, è possibile cominciare a raccontare. E la parola, di questa rivoluzione, è certamente l’arma più forte.
Niente Basaglia, scrive John Foot, senza l’apporto di “intellettuali, scrittori, editori, cineasti, giornalisti, fotografi e artisti che dedicarono tempo e talento alla lotta per il cambiamento”: da Giulio Einaudi a Giulio Bollati, da Silvano Agosti a Marco Bellocchio a Giuliano Scabia, a Carla Cerati a Gianni Berengo Gardin. Ma soprattutto, inaspettatamente, niente Basaglia senza la televisione, la Rai, che fin dal 1967 comincia a occuparsi passo dopo passo delle vicende manicomiali di Gorizia e porta dieci milioni di persone, il 3 gennaio del 1969 a seguire con Sergio Zavoli, lo speciale di Tv 7, I giardini di Abele, che inizia così:
I malati di mente li troviamo sempre in fondo a un viale di periferia, forse perché la loro immagine non turbi la nostra esistenza. A Gorizia sono al limite estremo della città: un muro di cinta dell’ospedale segna un tratto di confine fra lo stato italiano e quello jugoslavo. Ho chiesto di conoscere questo manicomio perché della sua storia recente si sono occupati uomini di scienza e di cultura in ogni parte del mondo, e da noi rischia di essere conosciuto solo attraverso un fatto di cronaca.
Questo sulla tv pubblica, in prima serata, nel 1969.
Due: Franco Basaglia non amava i matti, odiava il manicomio
Esiste un’iconografia basagliana che lo ha disegnato come un santo laico, un moderno san Francesco che invece di parlare con gli uccelli parla con i matti.
In realtà quello che interessa al medico veneziano non è il malato, da accudire e proteggere, bensì l’essere umano, nel senso più radicale, esistenziale del termine. Per questo agisce sull’istituzione e non sulla malattia.
Basaglia arriva a Gorizia nel 1961, ma non è un santo, un folle, un visionario; è un uomo, invece, immerso nella migliore cultura del suo tempo, un intellettuale, in grado di unire riflessione pratica ad azione concreta. È stato in prigione durante il fascismo, conosce il lager, grazie alla testimonianza di Primo Levi, pubblicato con enorme ritardo nel 1958.
Alla sua esperienza danno forma culturale tre libri che escono proprio l’anno del suo arrivo a Gorizia: I dannati della terra di Frantz Fanon, la Storia della follia di Michel Foucault, e Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenzadi Erving Goffman, testi che segnano profondamente lo sguardo di chi si occupa di esclusione sociale e malattia mentale.
Certo Gorizia sembra l’ultimo posto al mondo dove mettere in pratica questa mole teorica e invece diventa la fucina di un esperimento assolutamente inedito e dalle conseguenze uniche nel mondo: la legge sulla chiusura dei manicomi italiana fu infatti la prima. Basaglia, scrive John Foot, odia in primo luogo il manicomio perché sa che dentro il lager non esiste terapia possibile, che nessun uomo, posto di fronte a condizioni inumane di vita può rispondere in alcun modo a alcun tipo di sollecitazione.
Decide così di mettere la “malattia tra parentesi”. Una delle frasi sulle quali più si è esercitata la critica pro e contro Franco Basaglia, perché cosa significa mettere la malattia fra parentesi? Disconoscerne l’esistenza attribuendo ogni forma di disagio psichico a una ragione sociale, oppure, semplicemente, ribadire che dentro il manicomio la cura non è possibile?
Su questo Foot interviene in modo approfondito, forse anche troppo per un libro che non vuole essere una storia della psichiatria (o dell’anti-psichiatria) italiana. Certo è che intorno a questo concetto, per quanto all’apparenza astratto, ruota tutta la successiva messa in discussione delle istituzioni a partire da un testo che diventerà un bibbia del movimento, ovvero L’istituzione negata. Scrive Basaglia:
Finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito […] la nostra realtà è continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo.
Gestendo un’istituzione che neghiamo. In questa contraddizione, che attraverserà tutti gli anni settanta, s’incarna il valore di un intervento profondamente politico che ridisegna, a partire da Gorizia, il senso di ogni intellettuale di fronte alla possibilità di riformare o abbattere lo spazio entro cui agisce: sia il manicomio, la scuola, o in ultima istanza, la famiglia.
Gestire un’istituzione che di fatto si nega implica infatti il suo necessario superamento. Nessuna riforma è possibile. Soltanto, semplicemente, la sua chiusura. E così sarà.
Oggi, in Italia, gli ex manicomi svolgono le funzioni più disparate. Alcuni sono vuoti e abbandonati. Altri sono diventati ‘musei della mente’. Altri sono ancora collegati ai servizi sanitari e psichiatrici. Alcuni sono diventati scuole, o università, altri sono alloggi. Quasi tutti hanno aperto al pubblico (in parte almeno) i loro magnifici parchi. Al ‘grande internamento’ descritto da Foucault seguì, negli anni settanta, una ‘grande liberazione’. La società assorbì la maggioranza dei 100.000 internati, in un processo imposto al sistema da un movimento che operava all’interno delle istituzioni stesse, un fatto del tutto unico nel mondo occidentale. I manicomi italiani furono chiusi da chi ci lavorava: gente che aboliva, e per sempre, il proprio impiego. Nessuno, oggi, occupa i posti che furono di Basaglia, Giacanelli, Pirella e Casagrande negli anni sessanta e settanta: nessuno, oggi in Italia, fa il direttore di un ospedale psichiatrico. Il movimento agiva contro i propri interessi immediati, andando nella direzione opposta del clientelismo e del nepotismo. Fu la negazione di se stesso.
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L’ha ribloggato su Ipazia55's Blog.
grazie!
Che significa che Basaglia ,da solo, non avrebbe mai fatto niente? Nessuno da solo riesce a organizzare una riforma come quella basagliana, ma l’idea fi di liberare i pazienti fu sua, i dialoghi e colloqui continui iniziarono da lui, i libri sono suoi, e anhce la gestione politica della Riforma, fu sua, perché seppe mmediare e proporre.
Il resto lo scrisse nelle Conversazioni brasiliane e altri libri. Lo staff, di giovani che spontanemante andavano a Gorizia ea dare una mano lo aiutò molto. Ma se non ci fosse stato lui, saremmo ancora a livello degli altri paesi, solo cliniche psichiatriche, private, solo vite scandite da pasti medicine e riposo. Nessuna attività, nessun rapporto con il sociale. Oggi si propone il libro della Signorelli che ha lavorato con lui, poi ha costituito in Calabria: Centri di Salute mentale, alloggi per i pazienti, cure e colloqui frequenti. Ora queste attività sono scomparse, perché la riforma di Renzi è come quella della Tacher e di Reagan: niente stato solciale, e senza welfare, non si pensa ai diritti civili dlle persone che in qualche modo bisogna curare. Il Calabria-dice la Signorelli, non c’è più niente. E aspettiamo anche che ci distruggano la Sanità pubblica.
E’ evidentemente una provocazione che poi l’articolo spiega credo abbastanza bene.